
La grande illusione
” Dalle sue opere affiora e viene resa visibile la triste realtà della nostra condizione “
Filippo Mollea Ceirano




C’è una costante nella ricerca artistica di Nicolò Tomaini (nato nel 1989 nella provincia di Lecco) che fin dai suoi esordi ritorna ed emerge con la dovuta veemenza; è come un’ossessione che, anche se è sempre portata con una certa attenta vena ironica non può che lasciare, per lo meno nei fruitori più sensibili, un profondo disagio e un forte senso di angoscia. All’origine di questa sensazione c’è purtroppo da rinvenire, amaramente, un elemento scatenante tutt’altro che confortevole, e cioè il fatto che dalle sue opere affiora e viene resa visibile la triste realtà della nostra condizione.
È una realtà a dire il vero neppure troppo celata o sottile, ma alla quale c’è il forte rischio di finire con l’abituarsi. Per vero fin dalla fine degli anni ’60, forse anche prima, la critica più profonda e radicale aveva cercato di mettere le mani avanti sui rischi che il capitalismo, nella sua necessità di reggersi su una crescita sempre più accelerata, stesse tentando di impadronirsi del controllo totale dei corpi viventi attraverso la sua arma più subdola e perniciosa: la tecnologia. Sono state scritte pagine esemplari sull’argomento, a partire dalle osservazioni di Debord nella Società dello spettacolo, per passare da gli scritti di J. Camatte pubblicati sulla rivista «Invariance» dal 1968 in avanti e usciti poi in Italia nel volume: J. Camatte, Il capitale totale – Il «capitolo VI » inedito de «Il Capitale» e la critica dell’economia politica, Bari, Dedalo, 1976, e da quelli di Giorgio Cesarano (insieme a Collu e Coppo). Con il gruppo Quattrocentoquindici dagli anni ’90 avevamo cercato di prendere di petto la questione, sostenendo che ormai la “società dello spettacolo”, così come la aveva descritta Debord, si stava evolvendo in una fase ancor più invasiva e inquietante, che avevamo definito neomoderno. Nel testo pubblicato come postfazione a Bello come una prigione che brucia, (Torino, 1998) lo avevamo definito come «il rapporto sociale tra individui, costretti a prolungare la propria protesi, mediato dalla comunicazione».
Prima di addentrarci nel merito di questa mostra, che propone una sintesi ampia e aggiornata delle tappe più importanti di questo cammino iniziato da poco più di quindici anni dall’artista, sono opportune alcune riflessioni di ordine generale su queste tematiche di fondo, non tanto perché occorrano delle chiavi di lettura precostituite o perché le opere richiedano un complemento didascalico, ma proprio in quanto nella società contemporanea tutto tende ad essere circoscritto in un settore specialistico, di modo che anche la presa di posizione più netta rimanga chiusa nel recinto asfittico della “rappresentazione”. Ecco la vera alchimia dello spettacolo, ecco perché dei quadri, delle installazioni o delle sculture – provocazioni per innescare una presa di coscienza, palesi inviti alla rivolta – vengono ad essere presentate e percepite come oggetti compravendibili destinati a un becero consumo (o anche a un investimento speculativo) il cui senso non è che uno degli elementi da conglobare nel pacchetto preconfezionato di merce-feticcio.
Il capitalismo si era inizialmente affermato, con la rivoluzione industriale, ponendosi come sistema che, grazie alla capacità “scientificamente” organizzata di incrementare la produzione, era in grado di migliorare progressivamente le condizioni di vita fornendo beni di consumo adeguati a soddisfare sempre più e sempre meglio i bisogni della specie umana. In questa fase poteva accontentarsi di estrarre plusvalore dal processo produttivo semplicemente pagando di meno la forza lavoro, cioè appropriandosi di quello scarto tra il valore generato dal lavoro fisico dei salariati e quanto invece pagato al lavoratore, ovvero lo stretto necessario al suo mantenimento. Quello che poi gli sfruttati facevano nel loro tempo libero era trascurabile.
In sostanza acquistando con il salario la totalità della “forza-lavoro”, non aveva fatto altro che ridurre un aspetto umano al rango di oggetto, di merce, ma si trattava pur sempre di un aspetto delimitato e circoscritto. Nelle fasi successive il meccanismo iniziò a incepparsi, a causa del progressivo restringimento del divario tra costo di produzione e il costo di vendita; conseguenza, questa, ampiamente preannunciata dagli analisti più attenti. Non potendo più estrarre valore dal lavoro il processo di mercificazione iniziò ad appropriarsi progressivamente anche di tutte le altre componenti, fino ad assoggettare il vivente nel suo insieme: il corpo umano divenne così, in un periodo che possiamo far partire dai primi anni del secondo dopoguerra, l’ultima merce possibile, ed anche il luogo finale dell’amministrazione di un eterno presente che non promette altro che una esistenza sempre uguale e fine a se stessa.
Detto in altri termini la logica capitalista ha spinto gli umani, piuttosto che a servirsi delle macchine per fare in modo che assecondassero bisogni e desideri, ad adeguarsi per assecondare la funzionalità utilitaristica della macchina. È in questa dinamica, chiamata da Marx “inversione (o autonomizzazione) della protesi”, che si colloca uno degli snodi centrali dell’alienazione contemporanea.
Non sono mancati movimenti, critiche, forme di lotta e resistenza a volte anche con coraggiosi e radicali affondi, ma purtroppo l’esito dei conflitti, anche dei più forzati, non ha prodotto gli effetti sperati. Ed è così che, da un po’ di anni a questa parte, ci troviamo in una mortificante condizione nella quale lo spazio vitale è reso sempre più asfittico: da un lato esso è eroso dall’avanzamento di una struttura sociale che ci ha ridotto ad essere simultaneamente oggetti e consumatori della nostra immagine; dall’altro la potenza di fuoco di una informazione, che ha invaso quasi interamente anche lo spazio della comunicazione sostituendola con uno sterile scambio di dati, notizie e immagini monodirezionali inutilizzabili in un’ottica finalizzata a qualunque tentativo di elaborazione e di confronto dialettico, ha determinato un crollo diffuso di una risorsa essenziale per la nostra specie, ossia l’intelligenza.
Per questa ragione le dissertazioni teoriche, anche quando risultano formulate in termini precisi ed efficaci, non si sono dimostrate, in tempi recenti, all’altezza delle esigenze. Per molto tempo si è pensato, forse sperato, che il così detto “disvelamento”, ossia dimostrare con argomenti efficaci e stringenti le contraddizioni, le iniquità e le storture di un certo modello sociale fosse lo strumento necessario e sufficiente per innescare processi di ribellione e rivolta. Ormai però a quanto pare la nostra specie si è generalmente assuefatta a simili approcci e in molti, in troppi, sembrano avere fatto il callo al rapporto sociale così come si è consolidato e accettano di vivere in una condizione mortificante quasi come se si trattasse di una tragica quanto ineluttabile fatalità. Addirittura la variegata galassia di posizioni che si raggruppano sotto la denominazione di transumanesimo si sono orientate verso la ricerca di soluzioni che vedono in una sorta di simbiosi integrata tra il corpo umano vivente e le protesi offerte dal progresso tecnologico una possibile via di crescita, di miglioramento delle condizioni esistenziali, di sviluppo delle potenzialità generali e finanche delle libertà collettive e individuali.
Per fare in termini precisi il punto sui rischi insiti in queste posizioni occorrerebbe entrare in maggiori dettagli. Basti però superficialmente osservare che l’apparato tecnologico ad oggi disponibile non è il frutto di un processo evolutivo neutrale, bensì il prodotto di una ricerca orientata e regolata per essere funzionale a un preciso modello socio-economico, ossia quello capitalista. Se a questo aggiungiamo che la macchina (quella che dovrebbe essere la protesi), in quanto elemento inorganico e meccanicistico è per sua natura rigida e priva di capacità di adattamento, il pericolo di una progressiva disumanizzazione non è da sottovalutare.
È sull’orlo di questo formidabile baratro che si muove Tomaini, che attraverso le sue opere approccia la questione su un duplice piano: da un lato rende immediatamente visibili le contraddizioni di un sistema in cui la macchina detta regole e ritmi all’essere vivente; dall’altro invita alla riflessione, istiga al rifiuto di un tale sistema.
Fin dalle sue prime esperienze, iniziate circa un secolo dopo il primo manifesto futurista, si possono cogliere per molti versi gli aspetti centrali di un bilancio critico delle aspettative e delle illusioni germogliate in quel contesto e in quel passaggio storico: all’inizio del ’900 infatti, con il movimento a cui avevano dato vita Marinetti, Boccioni, Balla, assieme ai loro compagni di merende, aveva preso forma la prima avanguardia artistico-culturale, che aveva elaborato i propri mezzi di espressione appoggiandosi a una ottimistica fiducia nell’avanzamento del progresso, nella sua neutralità, e dunque nella possibilità di utilizzarlo, orientarlo in modo da servire alla specie umana. Sfuggiva, errore in quel tempo ancora comprensibile, un dettaglio tutt’altro che insignificante: quel progresso in cui tanta fiducia veniva riposta era promosso, finanziato, controllato e regolato da chi aveva nelle mani il controllo dell’economia, del potere e di tutto il resto (se c’è un resto); la direzione era quindi pianificata e decisa dall’alto. Nei trent’anni successivi, con le due grandi guerre, si è passati dalla grande Berta alle bombe di Hiroshima e Nagasaki, dimostrando così che piega poteva prendere la molto poco neutrale “neutralità” di questo progresso.
Con l’indagine sulle dinamiche con cui le macchine dei nostri giorni sottomettono, mediatizzandolo, il corpo vivente, Tomaini tira le somme degli esiti finali di questo percorso, lanciando al contempo un grido d’allarme sulle mutazioni antropologiche che a lungo andare esso finirà col provocare. E, per raggiungere tale obbiettivo, addomestica e utilizza proprio i mezzi e le soluzioni espressive elaborate dalle stesse avanguardie storiche che, come si diceva, da tale processo avevano preso origine.
Se si segue il succedersi dei vari cicli della sua ricerca, che la mostra di Montepulciano presenta in un allestimento particolarmente ricco di elementi icastici, si può notare prima di tutto come il vero protagonista, che è appunto il corpo, nelle sue opere non è quasi mai fisicamente, visivamente presente: è piuttosto evocato, dato per presupposto, alluso quale finale ma impercettibile destinatario delle dinamiche alienanti, che sono invece per quanto possibile ritratte in modo addirittura iperrealista. Esso è presente in quanto oggetto di rimozione, di assorbimento e devitalizzazione all’interno del rapporto sociale, degradato a comparsa e costretto nel ruolo di oggetto dell’espropriazione di senso, di pretesto per giustificare l’incremento di una pseudo-comunicazione che ambisce ad imporsi come unica verità possibile, come rappresentazione che si trasforma nella realtà sterile del mondo in cui la vita biologica anziché bene primario è considerata nulla più che un accidente. Ma, per giungere a cogliere questo lato fondamentale del problema occorre entrare a fondo nel percorso, ottimamente allestito, e accettare di confrontarsi fino in fondo con ciò che è immediatamente visibile attraverso un coinvolgimento che non reintra, ormai, nei canoni classici della società del consumo.
I toni non sono enfatici o esasperati, il che sottolinea gli aspetti angoscianti, gli esiti che, malgrado l’apparenza quasi scontata, trasudano un destino cruento che ci riguarda direttamente e in prima persona. La consunzione si presenta allora come un fatto già avvenuto, che si è compiuto e che è stato portato a termine senza incontrare una adeguata resistenza.
Le prime serie dei caricamenti e dei silicio, hanno come protagonista il tempo sospeso della trasformazione dell’immagine riprodotta. Sono realizzate intervenendo su vecchi quadri di maniera, che divengono la fissazione della videata colta, rispettivamente, nella fase di apparizione o in quella di cancellazione. I caricamenti si soffermano sullo stato d’animo passeggero, l’erompere dell’inquietudine che tutti noi viviamo quando attendiamo il completamento della figura che appare sul monitor del computer o sul telefonino: sono quei lunghi, interminabili secondi in cui siamo in totale balia della macchina, alla sua mercé, e letteralmente (o quasi) pendiamo dalle sue labbra. Nei silicio è invece la fase opposta della cancellazione, della distruzione delle forme. Essa è affiancata a una sezione in cui sono riprodotti i caratteri digitali del codice sorgente che racchiudono gli algoritmi che regolano e determinano tale processo. Anche l’atto estremo, eliminatorio, l’azione con cui ci sbarazziamo per sempre di una rappresentazione, è sottratto al nostro controllo, neppure di esso siamo padroni (a meno che, e forse è questo il suggerimento implicito che pare di scorgere nei meandri dell’opera, non optiamo per un più liberatorio, benché antieconomico, colpo di martello sullo schermo).
Nella serie Le 120 giornate di Sodoma si intravedono, chiuse dentro pacchi da spedizione, opere d’arte ridotte a gadget da vendere, acquistare, inviare o ricevere. Altro monito tutt’altro che enigmatico: lo scambio commerciale, la mercificazione totale, hanno a tal punto preso il sopravvento che l’imballaggio, su cui spicca e si impone visivamente il logo del vettore, lascia a mala pena scorgere dettagli irrilevanti del contenuto.
Le insidie insite nei processi di riproduzione tornano ancora ad essere tema centrale nelle Luci senza paesaggio, in cui vecchi quadri in parte rotti o cancellati si affiancano alla loro riproduzione dalla quale partono i cavi di un ipotetico collegamento virtuale. Anche in questo caso è evidente l’intento di denunciare il meccanismo della tecnologia della comunicazione, il rovesciamento di senso che essa realizza facendo sì che la copia, integra ma artificiosa, si sostituisca, materialmente e concettualmente, all’originale compromesso. Dal raffronto dei due elementi emerge chiaro l’effetto finale di tale modo di procedere: l’apparecchio replica, mantiene, moltiplica, conserva, ma al prezzo di una sensibile perdita di qualità, di forza emozionale, di dettagli importanti. Per conseguenza noi umani, nell’accettare che ciò avvenga, ci rassegniamo a ripiegare su una crescente rinuncia alle nostre aspettative.
Il discorso si fa ancora più esplicito e si arricchisce di maggiori complessità, portando a esiti visivi che solo l’efficace lavoro di desensibilizzazione portato avanti dal sistema impedisce che venga percepito come un pugno alla bocca dello stomaco, nei più recenti lavori. Nei Ritratti di illusionista Tomaini ancora una volta parte da opere del passato, di un tempo in cui, senza infingimento alcuno, ritratti, scene di vita, ambienti, paesaggi, si presentavano per quello che erano: la riproduzione veridica di una realtà che aveva la funzione di mostrare, non di interpretare. Procede poi sostituendo parti di tali immagini con innesti di pezzi di schede di computer, che nell’immagine che si compone nel suo insieme si presentano come squarci nella finzione di cui disvelano l’origine, denunciando che ciò che appare ai nostri occhi come il mondo in cui crediamo di vivere è in realtà un’apparenza creata artificialmente affinché il controllo dell’esistente rimanga saldamente nelle mani di chi ne tesse le fila. L’impatto è di notevole effetto: il dispositivo elettronico infatti lacera la forma, la ferisce, la aggredisce danneggiandola come con cancro che la attacca dall’interno.
Con le opere Il cavaliere inesistente la critica alla società e al suo attacco fisico colpisce ancora più a fondo e rivolge il suo sguardo anche nei confronti della passività e dell’accettazione di una tale condizione da parte di chi ne è vittima, più o meno consenziente. In tali opere è l’umano offeso, privato dalla sua corporeità, che s’impone perentoriamente – e anche drammaticamente – al centro della scena, mentre i dispositivi tecnologici, sempre presenti come causa agente delle degradazione, si intravedono quasi nascosti dietro le quinte. Si tratta infatti di assemblaggi costruiti con elementi di veri teatrini dei pupi siciliani, in cui la marionetta giace sul palcoscenico come corpo inerte, privo della testa, mentre parti dei codici informatici sono visibili, di traverso, riprodotte sui pannelli laterali.
Al di là dell’effetto visivo e immediato ci sono numerose implicazioni, citazioni e rimandi simbolici che meritano un ulteriore approfondimento, dal momento che si tratta di una ricerca in cui sono sintetizzate tutte le sperimentazioni precedenti sulle quali si innestano ulteriori nuove riflessioni.
Prima di tutto è il caso di soffermarsi sul titolo, che riprende quello di uno dei più noti (e a mio avviso intensi) romanzi di Italo Calvino, per molti versi anticipatorio dei processi di svuotamento e spersonalizzazione che, se ora appaiono di tutta evidenza, al tempo in cui fu scritto solo i più attenti e acuti spiriti critici erano in grado di intuire. Il protagonista Agilulfo è in realtà una splendida armatura vuota, mossa dalla coscienza e dalla volontà, dal rispetto per i valori cavallereschi e dal desiderio di farli trionfare, ma non contiene un corpo reale: è quindi un’apparenza perfetta, rispondente ai canoni sociali del tempo, ma è priva di fisicità. Attorno si muovono figure di varia umanità, con sentimenti, passioni, vizi, difetti e qualità, grandezze e miserie.
Anche l’utilizzo dei teatrini dei pupi racchiude non pochi significati, meno immediati ma non meno importanti. Si tratta innanzitutto di un linguaggio narrativo del tutto antitetico rispetto agli strumenti di rappresentazione che dominano il mondo contemporaneo: oggi si simula con la finalità ingannatoria di fare in modo che la finzione si confonda con la realtà, fino a inseguire la realizzazione del paradosso in cui la finzione stessa diviene “la verità”. Negli spettacoli dei pupi invece le marionette, le scenografie, gli elementi della simulazione si presentano per quello che sono: sintesi, evocazioni, rimandi a oggetti e soggetti che servono per dare forma a una narrazione che si presenta come tale; una narrazione che ha lo scopo di stimolare la fantasia, di accendere il processo critico e conoscitivo. Le raffigurazioni di personaggi e ambienti non hanno nulla di realistico, ma si fanno riconoscere attraverso elementi distintivi, simbolici, e alla fine è lo stesso racconto che le rende reali attraverso il processo di immaginazione dello spettatore-fruitore. Si tratta insomma di una finzione che si presenta fin da subito come tale, e che proprio per questo l’artista usa per disvelare la sostanza dei dispositivi menzogneri della pseudo-comunicazione contemporanea.
Nei teatri di Tomaini le corporature delle marionette che giacciono sul palco o nel proscenio sono “cavalieri inesistenti” che hanno compiuto il loro ciclo vitale, che è in realtà uno pseudo-ciclo mai realmente realizzatosi se non come consumo di immagini, è la simulazione di una vita negata; sono vuoti al loro interno, percepibili solo come forme esteriori di vestiti, elmetti e armature, a volte privi della testa, e su di essi, dalle pareti laterali o anche dal fondale di scena, incombono elementi evocativi della realtà virtuale: ai lati in particolare, visibili di traverso, sono riprodotte le videate dei settaggi dell’impostazione dei video-giochi, lo strumento informatico con cui nell’universo artificioso del mondo mediatizzato si creano effimere quanto illusorie identità attraverso gli avatar, che vorrebbero porsi come incarnazione dell’immagine di un sé stesso che sia la realizzazione di desideri e di aspirazioni di cui al contrario non riescono che a proporre una patetica e goffa parodia. D’altro canto le spoglie dei corpi che giacciono sul palcoscenico sono anch’esse il rimando a un corpo meccanico, costruito per imitare l’essere umano in termini funzionali a come la società contemporanea lo vorrebbe, ossia un insieme di pezzi che si possono riparare, funzionalizzare, sostituire. Si tratta della visione del corpo umano che, con il trionfo della società dello spettacolo, è divenuto nulla più che un apparecchio, un assemblaggio illusorio che degrada il vivente a immagine e somiglianza della macchina.
La provocazione è chiara: è giunto il tempo in cui, senza dilazioni e prima che sia troppo tardi, questi corpi debbono riprendersi il loro ruolo, ritrovare le dignità perduta e, rialzandosi, scrollarsi di dosso le incrostazioni, i pesi e le catene di cui li ha caricati il rapporto sociale. Costi quello che costi, sono in ballo le nostre vite.
Qualche parola ancora meritano le sculture-installazioni, presenze incombenti negli ambienti in cui trovano spazio. La Grande illusione riproduce il noto trucco della “scatola magica” degli illusionisti, che crea l’effetto di un corpo umano diviso in due tronchi autonomi: nell’opera dalla parte superiore spunta una testa in gesso, riproduzione di un antico busto di Seneca: nella parte inferiore spuntano due piedi in resina che imitano con grande realismo la carne umana. Con gli Ologrammi invece la realtà naturale (un uccellino in volo e una gallina, entrambi dentro le loro gabbie) che si presenta come pura immagine, privata della materia.
La mostra di Montepulciano fornisce un notevole elemento di arricchimento e di confronto che la rende particolarmente ricca di spunti per una comprensione organica del discorso del “maestro”. Essa infatti è come incastonata all’interno della collezione permanente del museo, ricco, variegato e importante repertorio di esempi di quello che per secoli è stato il senso dell’uso dell’immagine, della funzione che l’arte iconica poteva assumere quando lo scopo non era, o non era soltanto, quello di ricongiungersi con il senso dell’informazione, dell’invio di diktat unidirezionali. Le opere di Tomaini infatti entrano in dialogo diretto con quelle del passato, sono in molti frangenti affiancate, o esposte di fronte ad esse. A rischio di diventare strabici, vale davvero lo sforzo di sperimentare una fruizione simultanea, utile per innescare una serie di riflessioni nodali per arricchire la percezione del nostro tempo e di come esso vorrebbe condizionare anche quella del nostro passato.
Tracciate queste linee piuttosto sommarie e descrittive, anche se non amo fornire troppe chiavi di lettura per opere che in effetti sanno parlare da sé in termini piuttosto espliciti, penso che sia necessaria una riflessione finale.
Ciò perché i rischi sui quali costantemente ammonisce Nicolò Tomaini, e di cui abbiamo parlato finora, in verità li corre lui stesso. La società dell’immagine infatti ha assai bene saputo allestire le sue difese immunitarie, per cui l’esito più elementare è che anche quando si visita una mostra, come per esempio questa, ci si rassegni al proprio ruolo di spettatore imbecille, che consuma l’evento, osserva da lontano ciò che gli viene proposto, e passa poi al prossimo appuntamento del calendario per una nuova avventura da soggetto passivo della propria capacità di sottomissione.
Vorrei quindi rivolgere un invito a chi visita questa mostra: che provi a vedere in ogni opera sé stesso, che provi a sentire attraverso di esse il proprio corpo svuotato della sua energia vitale, fatto a pezzi, lacerato e corrotto dalle schede madre, degradato nella sua rappresentazione.
Si potrà così percepire con chiarezza l’inganno che stiamo vivendo, il modo in cui occorre comprendere il ruolo della tecnologia dispiegata nel nostro tempo e come ci si debba rapportare ad essa. Su questo è essenziale però un chiarimento: quando parlo di tecnologia, di insieme delle tecniche del mondo contemporaneo, mi riferisco specificamente ad esse, e non intendo affatto sostenere che un progresso non possa essere utile, virtuoso, etico e liberatorio. Il problema è per arrivare a ciò non possiamo accettare di avvalerci puramente e semplicemente degli strumenti che ci vengono messi a disposizione dallo stesso sistema che domina e che pretende di avere il controllo su tutto. È evidente che in tale ipotesi ci verrà consentito l’accesso solo a quegli strumenti il cui uso non potrà che rafforzare il controllo su di noi. Inseguire un processo di liberazione restando all’interno di questo contesto ci indurrebbe infatti a cercare una simbiosi impossibile, un connubio distopico che non può portare ad una armonia unitaria, ma solo un assemblaggio che si ricompone in una falsa armonia che si regge su un rapporto di potere dispotico e degradante.
